La complessa
relazione tra osservabile, processo di misura e osservatore è stata
a lungo oggetto di dibattito nella comunità scientifica e ha dato
luogo, nella storia, a diverse interpretazioni – la prima delle
quali, e la più famosa, è stata la cosiddetta interpretazione di
Copenaghen, formulata a metà degli anni cinquanta a partire
dai lavori di Niels Bohr e Werner Heisenberg.
Secondo
l’interpretazione di Copenaghen, domande come “dov’è
una particella quantistica prima di misurarne la posizione”
sono prive di senso, in quanto, per l’appunto, la posizione di una
particella non è determinata finché non la si misura, e anzi, il
processo di misura concorre a determinarla. Oggi un nuovo studio,
pubblicato in pre-print su ArXiv, condotto da un’équipe di
scienziati della Heriot-Watt University a Edinburgo, si è
aggiunto alla lista di esperimenti specificamente progettati per
chiarire il ruolo dell’osservatore nel processo di misura e in
particolare il suo rapporto con la realtà. Si tratta della versione
reale di un esperimento ideale proposto per la prima volta da Časlav
Brukner, fisico teorico dell’università di Vienna.
“Prendete un
pallone. Da calcio, da basket, da pallamano; non importa. Sparatelo
con un cannone e riprendete la scena con telecamere ad altissima
definizione. Ora riesaminate il video al computer e se siete stati
abbastanza accurati, riuscirete senza dubbio a portare a termine il
processo di misura in modo più che soddisfacente, con ottima
approssimazione, con quelli previsti dalle equazioni dei modelli
teorici che descrivono il moto del pallone. E potete star certi che
il pallone, con o senza telecamere, avrebbe percorso esattamente la
stessa traiettoria con le medesime caratteristiche. In altre parole,
ai sistemi macroscopici poco importa chi li sta osservando, e come lo
sta facendo. O ancora, riprendendo un motto spicciolo da libro di
filosofia dell’autogrill, “un albero che cade nella foresta fa
rumore eccome, anche se non c’è nessuno ad ascoltarlo”.
Ora, rimpicciolite
il pallone fino a farlo diventare un oggetto quantistico (un
elettrone, un fotone; non importa) e ripetete l’esperimento con un
mini-cannone e una mini-telecamera. Vi accorgerete che non riuscirete
più a concludere la misura come prima. Perché la vostra
mini-telecamera perturberà irrimediabilmente la traiettoria del
mini-pallone, diventando di fatto parte integrante e attiva
dell’esperimento
È uno dei capisaldi
più sottili e controintuitivi della meccanica quantistica, di quelli
che mettevano a disagio perfino Albert Einstein: il processo
di misura – e con esso l’osservatore che la compie – non è in
alcun modo scindibile dall’oggetto misurato. Di più: il processo
di misura è addirittura distruttivo, nel senso che perturba
irrimediabilmente e irreparabilmente l’osservabile. “Un albero
(quantistico) che cade nella foresta fa un rumore diverso a seconda
di chi lo ascolta e di come lo ascolta”.
La
realtà, una creazione della nostra mente
È possibile vedere, udire, odorare, esperire
qualcosa che non esiste nella realtà oggettiva, ma che è unicamente
il frutto della nostra mente?
È possibile vedere cose che non ci sono, udire
cose che non esistono, odorare profumi che paiono scaturiti da un
misterioso altrove; insomma: è possibile, ed è razionalmente
ammissibile, fare esperienza di immagini, suoni, odori, relativi a
oggetti che non sono presenti, che non esistono se non nella
coscienza dell’io soggettivo, ma che restano invisibili e
sconosciuti agli altri?
Sappiamo che casi
del genere si verificano, e anche abbastanza frequentemente; e
sappiamo che sono stati descritti non solo da persone assolutamente
comuni, ma anche da eminenti studiosi: filosofi, psicologi,
scienziati;
Santa Giovanna
D’Arco udiva le “voci”: ma nessun altro le udiva. Da dove
venivano? Secondo i suoi giudici, a Rouen, venivano dal
demonio: e tale argomento fu rivolto contro lei, contribuendo alla
sua condanna per stregoneria.
Ora, la domanda che
ci poniamo non è se possano darsi delle realtà oggettive che solo
alcuni esseri umani, in particolari circostanze, sono in grado di
percepire: domanda alla quale la risposta non può essere che
affermativa, se non altro per analogia con quanto osservato in
presenza di animali che vedono, odono, odorano cose che gli umani non
percepiscono affatto, ma che poi si rivelano perfettamente vere. Il
nostro cane salta giù dalla sedia (dalla quale, peraltro, non si può
vedere attraverso le finestre), si agita e scodinzola quando
l’automobile di un amico si sta ancora avvicinando, giù in strada,
e prima che sia giunta davanti alla casa, che si sia fermata, e che
l’amico ne sia disceso. Si tratta di una esperienza comunissima,
quasi banale per coloro i quali vivono con un animale domestico,
specialmente con un cane. Allo steso modo, è noto che gli animali, e
non solo quelli domestici, ma anche e soprattutto quelli selvatici,
sentono l’avvicinarsi di un terremoto, di una inondazione e di
altri simili catastrofi naturali, entrano in agitazione, e questo
molte ore prima che l’evento disastroso si verifichi.
Ma la domanda é:
sarebbe possibile che le esperienze relative a cose che non ci sono,
siano da collegarsi non già con il manifestarsi di eventi che solo
alcuni esseri viventi percepiscono, ma con una realtà interiore che
è propria di ciascuno, e che filtra, per così dire, la realtà
esterna, la modifica, la ricrea e, alla fine, la rende percepibile in
maniera radicalmente diversa da come era in origine?
È
possibile che la realtà in se stessa, la cosa in sé kantiana, sia
per noi inconoscibile, del tutto misteriosa, mentre quella che
conosciamo e che esperiamo ogni giorno, ogni minuto, è un’altra
cosa, ovvero una perenne creazione della nostra mente, della nostra
coscienza, la quale, se pure nasce da un “noumeno” a noi
precluso, procede poi per vie sue proprie, al punto che è
impossibile dire se si tratti di una modificazione della realtà o di
una realtà a sé stante, di tante realtà quanti sono gli atti della
conoscenza: il vedere, l’udire, l’odorare, eccetera, da parte di
tanti soggetti diversi quante sono le creature viventi e quanti sono
gli eventi della loro vita psichica?
Ebbene noi riteniamo
che non solo ciò sia possibile, ma che sia la condizione normale del
nostro rapporto con la cosiddetta realtà esterna: e i casi-limite,
come quello narrato da Carl Gustav Jung, mentre egli era in
visita ai monumenti tardo-antichi di Ravenna, nel 1934, ci offrono
una spiegazione più convincente, perché maggiormente esplicita,
della universalità del soggettivismo conoscitivo. Jung si recò da
Alinari per comprare le fotografie dei mosaici, vista precedentemente
nella visita a Ravenna, che rappresentava Cristo che tendeva la mano
a Pietro, mentre questi stava per affogare nelle onde. “Ho
conservato un chiarissimo ricordo del mosaico di Pietro che affoga, e
ancora oggi posso vederne ogni dettaglio: l’azzurro del mare, le
singole tessere del mosaico, i cartigli con le parole che escono
dalle bocche di Pietro e di Cristo, e che tentai di decifrare. Appena
lasciato il battistero mi recai subito da Alinari per comprare le
fotografie dei mosaici, ma non potei trovare. Il tempo stringeva –
si trattava solo di una breve visita – e così rimandai l’acquisto
a più tardi: pensavo di poter ordinare le riproduzioni da Zurigo.
Quando ero di nuovo in patria, chiesi a un mio conoscente che andava
a Ravenna di procurarmi le riproduzioni, Naturalmente non poté
trovarle, perché poté constatare che i mosaici che io avevo
descritto non esistevano!”
Di questo strano
episodio, che lo colpì moltissimo, Jung tenta di dare una
spiegazione razionale basata sui meccanismi dell’inconscio. Secondo
lui, l’”anima” è una personificazione dell’inconscio,
impregnata di storia e preistoria, e rappresenta tutta la vita del
passato che è ancora viva nell’individuo. Nel confronto con la
propria “anima”, Jung racconta di essere stato vicino a perdersi,
ad annegare, come stava accadendo a San Pietro allorché questi aveva
tentato di raggiungere Gesù camminando sulle acque; ma ne era uscito
indenne e l’integrazione dei contenuti inconsci lo aveva aiutato a
ricostituire l’equilibrio della propria personalità. Egli conclude
affermando che non si può descrivere ciò che accade allorché la
coscienza si integra con l’inconscio, lo si può solo esperire; e
che dopo l‘esperienza di Ravenna, egli si persuase che un fatto
interno alla coscienza può apparire esterno ad essa, e viceversa.
Allora,
domandiamoci: che cosa vediamo, quando crediamo di vedere? Che cosa
udiamo, quando crediamo di udire, e poi constatiamo che avevamo visto
e udito cose che non esistono nella “realtà”? Ci sembra che
esperienze come quella descritta da Jung, e da tanti altri, si
prestino semmai a una chiave di lettura più radicale, più conforme
alle teorie di George Berkeley: noi non vediamo e non udiamo le cose
che sono “fuori” di noi, ma quelle che sono “dentro” di noi:
perché sono TUTTE dentro di noi. Quello che è fuori, è fuori; e
noi non potremmo saperne nulla. Quello che percepiamo, lo percepiamo
perché avviene nella nostra mente, viene elaborato dalla nostra
coscienza.
Non vogliamo con ciò
negare che esista una base oggettiva del nostro conoscere, perché,
se così fosse, vivremmo in un perenne manicomio, in cui non
esisterebbe alcun dialogo possibile con i nostri simili. Neghiamo
soltanto che tale base determini la nostra esperienza. Quello che
sono le cose in se stesse, noi non lo sappiamo e non lo sapremo mai.
Eppure c’è una maniera per giungere alla realtà delle cose in se
stesse; ma si tratta, appunto, di una via extra-razionale (e
sovra-razionale): l’esperienza mistica dell’unione con l’essere.
Noi siamo parte dell’essere, e quello che riguarda noi, nasce
dall’essere. Il nostro errore è quello di crederci separati, di
essere delle realtà indipendenti: ma è un errore della mente. Per
superare tale errore, bisogna lasciar andare i meccanismi della
mente, le sue certezze, le sue operazioni. Quando ci lasciamo portare
dalla corrente dell’essere, le barriere cadono e la realtà ci si
presenta quel è veramente: un tutto unico, di cui noi siamo parte.
Non ci sono più un prima e un dopo, un tempo e uno spazio, un dentro
e un fuori: tutto è contemporaneamente vivo e presente.
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