domenica 27 settembre 2020

I Cerchi delle fate - uno dei più grandi enigmi della natura

 


I Cerchi delle fate, noto agli scienziati col nome di fairy circles, è un fenomeno naturale del quale non si conoscono con esattezza le cause, e che è stato definito “uno dei più grandi enigmi e uno dei più sbalorditivi spettacoli della natura.

Per decenni la comunità scientifica si è interrogata sull’origine dello strano fenomeno. Numerose missioni di ricerca hanno cercato una spiegazione all’insolito paesaggio che pare disegnato da un artista invisibile.

Sono aree a forma di cerchio prive di vegetazione ma circondate da un anello di erba del genere Stipagrostis. Possono avere dimensioni molto diverse, dai 3 ai 20 metri di diametro, e generalmente sopravvivono per qualche decina di anni. Alcuni sono sopravvissuti anche per 75 anni.


In Africa i cerchi delle fate si trovano nel deserto del Namib, che dall’Angola arriva fino al Sudafrica, occupando tutta la fascia costiera della Namibia. Sono milioni, e si trovano nella zona che collega le distese aride erbose con quelle propriamente desertiche.

Il Mistero dei cerchi

Tante teorie sono state elaborate nel tempo per spiegarne l’origine. Non sono mancate speculazioni complottiste, come quelle che hanno parlato di “possibili effetti collaterali di test nucleari segreti”. Qualcuno si è spinto persino ad affermare che quei bizzarri dischi di terra siano opera di alieni sbarcati con le loro navicelle nel bel mezzo del deserto del Namib.

Le popolazioni locali africane tramandano leggende secondo cui i cerchi delle fate sono le impronte delle divinità e degli spiriti, oppure le bolle del respiro di un drago che vive sottoterra. Gli scienziati hanno invece iniziato a studiare i cerchi delle fate negli anni Settanta, ma da allora nessuno è riuscito a formulare una teoria convincente sul perché si formino, sul perché siano circolari e sul perché siano distanziati con regolarità.

Gli scienziati hanno sviluppato molte teorie: c’è chi ha ipotizzato che i cerchi delle fate siano il risultato di una contaminazione causata da materiali radioattivi, o che dipendano dall’avvelenamento del suolo provocato da alcune piante. Altri hanno sostenuto che siano gli struzzi a crearli, smuovendo la terra.

Walter Tschinkel, un biologo americano della Florida State University, ha raccontato che appena li vide disse alla guida locale che era evidente che fossero causati dalle termiti, insetti che vivono in grosse comunità in quelle tipiche strutture verticali di terra molto comuni in Africa. Secondo Tschinkel era probabile che le termiti uccidessero la vegetazione da sottoterra all’interno di quei cerchi, oppure che producessero gas velenosi che impedivano all’erba di crescere.

Secondo Norbert Juergens, un biologo dell’Università di Amburgo, gli insetti mangiano da sottoterra le radici della vegetazione, per fare sì che l’acqua piovana venga invece “immagazzinata” tra i granelli di sabbia del suolo. Juergens ha sostenuto che le termiti seguirebbero delle specie di percorsi circolari nel mangiare le radici – da cui la forma a cerchio – e che il fatto che ci siano molti cerchi a poca distanza tra loro dipende dalla competizione tra diverse colonie di insetti. Quando però Tschinkel tornò in Namibia nel 2007 per analizzare più approfonditamente i cerchi, non trovò traccia di termiti, dopo tre giorni di scavi.

Più recentemente, però, Michael Cramer, un biologo dell’Università di Città del Capo, ha formulato una spiegazione più solida delle altre. Secondo Cramer, che presentò la sua scoperta nel 2013 dopo una ricerca con l’ecologa Nichole Barger, i cerchi delle fate sono il risultato di una particolare organizzazione delle piante per rispondere a una carenza di acqua e di prodotti nutritivi nel suolo. Secondo questa teoria, le piante più resistenti sviluppano radici più profonde che assorbono più acqua della vegetazione circostante: le loro radici, sviluppandosi più in profondità delle altre, ammorbidiscono il terreno permettendo ad altre di crescere nelle immediate vicinanze. In questo modo, però, queste piante “rubano” l’acqua e il nutrimento alle piante più lontane, facendole morire. Al posto di queste piante non nasce più niente, perché il terreno è reso troppo compatto e caldo dalla mancanza di piante. Queste aree circolari vengono quindi usate come riserve d’acqua dalle piante che le circondano: l’acqua che cade al loro interno, non venendo assorbita da nessuna pianta, defluisce verso i bordi, nutrendo quelle che circondano il cerchio.

Secondo Cramer, questo è il motivo per cui i cerchi delle fate si trovano solo nelle zone della Namibia con poca piovosità, e si espandono negli anni di particolare siccità e si restringono in quelli in cui piove di più.

Le nuove ipotesi

Una nuova ipotesi spiega come si formano i cerchi di sabbia circondati da un anello di erba che si trovano in aree molto aride del pianeta, come in Namibia e in Australia

Negli ultimi anni erano due le ipotesi più accreditate: la prima voleva che tali cerchi fossero l'opera di termiti che sistematicamente sgranocchiavano le radici dell'erba là dove ci sono i loro nidi.L'ipotesi era sostenuta dal fatto che per l'80% dei casi i cerchi delle fate della Namibia avevano sotto di essi un gran numero di termiti. A contraddire questa ipotesi però, vi era il fatto che al di sotto dei cerchi australiani non vi sono termiti.

La seconda ipotesi sosteneva invece che la formazione dei cerchi fosse da imputare nelle erbe autoctone, che avrebbero raggiunto livelli sorprendentemente sofisticati di auto-organizzazione in uno degli ambienti più inospitali della Terra.

Ora La rivista Nature ha pubblicato i primi risultati di una ricerca sul campo condotta da un’équipe di ricercatori dell’Università di Princeton guidata dalla biologa Corina Tarnita. Secondo gli scienziati statunitensi, i segni circolari nel deserto sarebbero frutto dalla competizione tra insetti e piante. A “disegnarli” sarebbe infatti l’azione combinata delle colonie di termiti (Psammotermes allocerus), che vivono nel sottosuolo, in competizione con gli arbusti locali che cercano di svilupparsi in superficie

La spiegazione tuttavia soffre ancora di un limite: non riesce a spiegare perché i cerchi delle fate abbiano una forma quasi perfettamente circolare e soprattutto non spiega quelli australiani.

Ma i ricercatori sostengono, infatti, che sono importanti anche le erbe che formano i cerchi. In zone dove vi è scarsità di acqua e umidità alcune erbe sarebbero in grado di sopraffarne altre, mandando le loro lunghe radici sotto la superficie per rubarla ai loro vicini. Questo sistema porta, alla lunga, alla formazione di chiazze di sabbia asciutta. Al loro interno l’umidità potrà concentrarsi, dando modo all’erba che ha preso il sopravvento di avere sufficiente nutrimento per la sopravvivenza.

Sarebbe questa la spiegazione che risolve definitivamente Il mistero dei cerchi delle fate?

I risultati delle osservazioni hanno dimostrato che solo la combinazione delle due ipotesi fornisce le condizioni per la creazione degli strani anelli d’erba: l’interazione tra animali e piante sembra di essere all’origine del fenomeno.

Noi abbiamo provato a integrare queste due diverse prospettive attraverso modelli di simulazione, e poi abbiamo provato a confermarle raccogliendo dati sul campo».Spiega Tarnita.

In realtà manca ancora un tassello, perché le ricerche si sono basate su dei modelli che hanno funzionato in laboratorio, ora bisognerà trovare conferma nella realtà.

 I "cerchi nel grano" è un incentivo a cercare un inquadramento matematico di base dodici! Capitolo XVIII

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sabato 19 settembre 2020

Nuovo paradosso quantistico mette in dubbi un pilastro della realtà fisica

 


Uno straordinario effetto quantistico chiamato entanglement attribuisce una proprietà molto “poetica” alle particelle. Se, nella loro storia, due di queste hanno avuto occasione di interagire reciprocamente, anche dopo un certo tempo, pur trovandosi magari agli estremi opposti dell’universo, accadrà che se qualcosa dovesse interferire con la prima alterandone lo stato, istantaneamente andrà a modificarsi lo stato dell’altra. (Enea)

Ora, è stato trovato un nuovo paradosso nella meccanica quantistica - una delle due teorie scientifiche fondamentali, insieme alla teoria della relatività di Einstein - che mette in dubbio alcune idee di senso comune sulla realtà fisica.

Presupposti di senso comune

Queste sono idee intuitive e ampiamente credute anche dai fisici:

“Quando qualcuno osserva un evento accadere, è successo davvero.”

“È possibile fare scelte libere, o almeno scelte statisticamente casuali.

“Una scelta fatta in un posto non può influenzare immediatamente un evento distante “ (località).

Se un albero cade in una foresta e non c’è nessuno a sentirlo, emette un suono?” Forse no, dicono alcuni. E se qualcuno è lì per ascoltarlo? Se pensi che ciò significhi che ovviamente ha fatto un suono, potresti dover rivedere quell’opinione.

La ricerca, pubblicata su Nature Physics, dimostra che i presupposti possono anche non essere tutti veri – a meno di un crollo della stessa meccanica quantistica.

Questo è il risultato più importante di una lunga serie di scoperte nella meccanica quantistica che hanno stravolto le nostre idee sulla realtà.

L’importanza di questa scoperta per capire la realtà

Per Niels Bohr, uno dei fondatori della teoria quantistica, oltre un secolo fa, alcune proprietà di una particella, come posizione e velocità, non possono essere perfettamente osservate contemporaneamente. Non esistono realmente finché non vengono misurate.

E dal momento che alcune proprietà di una particella non possono essere misurate perfettamente nello stesso momento – come la posizione e la velocità – esse non possono essere contemporaneamente reali.

In un articolo del 1935, Albert Einstein con i colleghi teorici Boris Podolsky e Nathan Rosen, ha sostenuto che ci deve essere di più nella realtà di quello che la meccanica quantistica potrebbe descrivere.

L’articolo considerava una coppia di particelle distanti in uno stato speciale ora noto come “stato entangled“. Quando la stessa proprietà (ad esempio, posizione o velocità) viene misurata su entrambe le particelle entangled, il risultato sarà casuale, ma ci sarà una correlazione tra i risultati di ciascuna particella.

Ad esempio, un osservatore che misura la posizione della prima particella potrebbe prevedere perfettamente il risultato della misurazione della posizione di quella distante, senza nemmeno toccarla. Oppure l’osservatore potrebbe scegliere di prevedere la velocità. Ciò ha una spiegazione naturale, sostenevano, se entrambe le proprietà esistevano già prima di essere misurate, contrariamente all’interpretazione di Bohr.

Tuttavia, nel 1964 il fisico nordirlandese John Bell scoprì che l’argomento di Einstein falliva se fosse eseguita una combinazione più complicata di misurazioni diverse sulle due particelle.

Bell ha mostrato che se i due osservatori scelgono in modo casuale e indipendente tra la misurazione dell’una o dell’altra proprietà delle loro particelle, come la posizione o la velocità, i risultati medi non possono essere spiegati in nessuna teoria in cui, sia la posizione che la velocità, erano proprietà locali preesistenti.

Sembra incredibile, ma gli esperimenti hanno ora dimostrato in modo definitivo che le correlazioni di Bell si verificano. Per molti fisici, questa è la prova che Bohr aveva ragione: le proprietà fisiche non esistono finché non vengono misurate.

La misurazione è essenziale per la realtà fisica

Nel 1961, il fisico teorico ungherese-americano Eugene Wigner ideò un esperimento mentale per mostrare cosa c’è di così complicato nell’idea di misurazione/osservazione.

Ha considerato una situazione in cui un suo amico entra in un laboratorio ermeticamente sigillato ed esegue una misurazione su una particella quantistica.

Tuttavia, Wigner notò che applicando le equazioni della meccanica quantistica per descrivere questa situazione dall’esterno, il risultato è abbastanza diverso. Invece della misurazione dell’amico che rende reale la posizione della particella, dal punto di vista di Wigner l’amico rimane impigliato con la particella e infettato dall’incertezza che lo circonda.

Questo è simile al famoso gatto di Schrödinger, un esperimento mentale in cui il destino di un gatto in una scatola si intreccia con un evento quantistico casuale.

Per Wigner, questa era una conclusione assurda. Credeva invece che una volta coinvolta la coscienza di un osservatore, l’entanglement sarebbe “collassato” per rendere definitiva l’osservazione dell’amico.

E se Wigner si fosse sbagliato?

L’ esperimento

Nella ricerca effettuata, i fisici si sono basati su una versione estesa del paradosso dell’amico di Wigner, proposto per la prima volta da Časlav Brukner dell’Università di Vienna. In questo scenario, ci sono due fisici – chiamali A e B – ciascuno con i propri amici (C e D) in due laboratori distanti,

C e D stanno misurando un paio di particelle intrecciate, come negli esperimenti di Bell.

Come nell’argomento di Wigner, le equazioni della meccanica quantistica ci dicono che C e D dovrebbero rimanere invischiati nelle loro particelle osservate, ma poiché quelle particelle erano già intrappolate l’una con l’altra, C e D dovrebbero rimanere intrappolati, in teoria.

Ma cosa implica sperimentalmente?

L’ esperimento procede così: gli amici entrano nei loro laboratori e misurano le loro particelle. Qualche tempo dopo, Ae B lanciano una moneta ciascuno: se sono teste, aprono la porta e chiedono al loro amico cosa ha visto, se è croce, eseguono una misurazione diversa.

Questa diversa misurazione dà sempre un risultato positivo per A se C è impigliato con la sua particella osservata nel modo calcolato da Wigner. Allo stesso modo per B e D.

In ogni realizzazione di questa misurazione, tuttavia, qualsiasi registrazione dell’osservazione del loro amico all’interno del laboratorio viene bloccata dal raggiungere il mondo esterno. C o D non ricorderanno di aver visto nulla all’interno del laboratorio, come se si fossero risvegliati dall’anestesia totale.

Ma è successo davvero, anche se non lo ricordano?

Se i pressuposti - citate all’inizio - sono corrette, ogni amico ha visto un risultato reale e unico per la propria misurazione all’interno del laboratorio, indipendentemente dal fatto che A o B abbiano successivamente deciso di aprire la loro porta. Inoltre, ciò che vedono A e C non dovrebbe dipendere da come atterra la moneta di B, e viceversa.

È stato dimostrato che se questo fosse il caso, ci sarebbero dei limiti alle correlazioni che A e B potrebbero aspettarsi di vedere tra i loro risultati. È stato anche dimostrato che la meccanica quantistica prevede che A e B vedranno correlazioni che vanno oltre quei limiti.

Successivamente, è stato fatto un esperimento per confermare le previsioni della meccanica quantistica utilizzando coppie di fotoni entangled. Il ruolo della misurazione di ogni amico è stato svolto da uno dei due percorsi che ogni fotone può seguire nel setup, a seconda di una proprietà del fotone chiamata “polarizzazione“, ovvero il percorso “misura” la polarizzazione.

L’ esperimento è solo una dimostrazione di principio, poiché gli “amici” sono molto piccoli e semplici. Ma apre la questione se gli stessi risultati sarebbero validi con osservatori più complessi.

Potremmo non essere mai in grado di fare questo esperimento con veri umani. Ma sosteniamo che un giorno potrebbe essere possibile creare una dimostrazione conclusiva se l‘”amico” fosse un’intelligenza artificiale a livello umano in esecuzione in un enorme computer quantistico.

Sebbene un test conclusivo possa essere lontano decenni, se le previsioni della meccanica quantistica continuano a essere valide, ciò significa che ha forti implicazioni per la nostra comprensione della realtà, anche più delle correlazioni di Bell.

Per prima cosa, le correlazioni che abbiamo scoperto non possono essere spiegate semplicemente dicendo che le proprietà fisiche non esistono finché non vengono misurate.

Ora viene messa in discussione la realtà assoluta degli stessi risultati delle misurazioni.

I risultati ottenuti costringono i fisici ad affrontare il problema della misurazione a testa alta: o l’esperimento non si ingrandisce e la meccanica quantistica lascia il posto a una cosiddetta “teoria del collasso oggettivo“, oppure uno dei presupposti di buon senso deve essere respinto .

Conflitto con la teoria della relatività di Einstein

Ci sono teorie, come quella di de Broglie-Bohm, che postulano “l’azione a distanza“, in cui le azioni possono avere effetti istantanei in altre parti dell’universo. Tuttavia, questo è in diretto conflitto con la teoria della relatività di Einstein.

Alcuni cercano una teoria che rifiuti la libertà di scelta, ma richiedono una causalità all’indietro o una forma apparentemente cospirativa di fatalismo chiamata “superdeterminismo” .

Un altro modo per risolvere il conflitto potrebbe essere quello di rendere la teoria di Einstein ancora più relativa. Per Einstein, diversi osservatori potrebbero non essere d’accordo su quando o dove accade qualcosa, ma ciò che accade era un fatto assoluto.

Tuttavia, in alcune interpretazioni, come la meccanica quantistica relazionale, il QBismo o l’interpretazione a molti mondi, gli eventi stessi possono verificarsi solo in relazione a uno o più osservatori. Un albero caduto osservato da uno potrebbe non essere un fatto per tutti gli altri.

Tutto ciò non implica che tu possa scegliere la tua realtà. In primo luogo, puoi scegliere quali domande porre, ma le risposte sono date dal mondo. E anche in un mondo relazionale, quando due osservatori comunicano, le loro realtà si intrecciano. In questo modo può emergere una realtà condivisa.

Ciò significa che se entrambi assistiamo alla caduta dello stesso albero e tu sostieni di non avere sentito il rumore, senza scomodare la teoria quantistica potresti aver bisogno solo di un apparecchio acustico.

Rivelato il mistero della "flessibilità" dei dischi volanti! - utilizzano oggetti senza massa per entrare nella nostra gravità? - Capitolo XVIII


Fonte: Sciencealert

venerdì 11 settembre 2020

Einstein e Kurt Gödel - Due geni della fisica e della logica matematica che passeggiano a braccetto







Li chiamavano «i due di Princeton». Albert Einstein e Kurt Gödel. Il primo allegro, ironico, pronto allo scherzo e alla battuta, al paradosso. Gödel invece, magro, viso triste ed emaciato, meticoloso, diffidente, ipocondriaco, convinto fin dalla prima giovinezza di essere gravemente malato. Non solo si riteneva gravemente malato, ma anche avvelenato da cibi e medicine e diffidente nei confronti dei medici. Al punto da lasciarsi morire di fame (è deceduto per denutrizione, nel gennaio 1978). Difficile immaginare due personalità tanto diverse, eppure così amici.

A Princeton Einstein abitava al 112 di Mercer Street e Kurt Gödel – da tutti riconosciuto come il più grande logico dopo Aristotele - stava in una villetta accanto alla sua. Ogni giorno andavano insieme all’Institute e insieme tornavano. Nei verdi vialetti di Princeton le loro passeggiate facevano parte del paesaggio. Di che cosa parlavano?

E’ probabile che un tema delle passeggiate di Einstein e Gödel fosse il tempo. Non quello meteorologico, il tempo fisico. La cosa strana è che per entrambi il tempo è una finzione. Quindi discutevano del nulla? Cavarsela con questa battuta sarebbe semplicistico. Bisogna capire in che senso il tempo è una finzione. Nonostante si chiami relatività, Einstein concepisce la sua teoria per dare alla fisica un fondamento assoluto: qualsiasi osservatore in ogni punto dell’universo deve trovare nei fenomeni a cui assiste, le stesse leggi. 

Affinché ciò accada, è necessario che a luce nel vuoto abbia sempre la stessa velocità (299 792, 458 chilometri al secondo) in qualunque sistema di riferimento. Ma perché questo valore sia assoluto c’è un prezzo da pagare: rendere relativi il tempo e le distanze. Così, tempo e spazio, indissolubilmente legati, diventano elastici, non si può stabilire la simultaneità di due eventi lontani, non esiste più un “adesso” universale.

Gödel era la persona giusta per apprezzare questo paradosso. L’essenza del suo teorema di incompletezza (“nessun sistema matematico può essere corretto, completo e decidibile” presuppone un’affermazione paradossale del tipo “questa affermazione non può essere dimostrata”. Ora, delle due, l’una: se l’affermazione può essere dimostrata abbiamo una falsità e il sistema non è corretto; se invece non può essere dimostrata, allora l’affermazione è vera ma, non potendo essere dimostrata, il sistema è incompleto. Come se non bastasse, Gödel scopre anche l’esistenza di affermazioni che non sono decidibili, cioè delle quali non si può provare né che sono vere né che sono false, e per prudenza su questa soglia ci fermiamo.

Che la natura del tempo fosse una questione cruciale sia per Einstein sia per Gödel si deduce anche da un curioso dono che Gödel fece ad Einstein per il suo settantesimo compleanno. Scavando nella relatività generale, il logico matematico escogitò un modello di universo a tempo circolare nel quale un dato istante dopo un lunghissimo intervallo, torna al punto di partenza e così via all’infinito. Nell’universo di Kurt, Albert avrebbe potuto compiere settant’anni un numero illimitato di volte.

Discorsi tra Geni… non si discute!
Anziché esserne lusingato Einstein si spaventò. Se la relatività ammette i viaggi a ritroso nel tempo – ragionò – non può essere vera perché entra in contraddizione con la realtà fisica: potremmo risalire a un’epoca antecedente la nostra nascita e uccidere nostro nonno rendendo impossibile la nostra esistenza. 
Il dono di Gödel era avvelenato, apriva una crepa nella teoria fondamentale della fisica, il capolavoro indiscusso di Einstein. Con logica ferrea Gödel lo rassicurò: se il viaggio nel tempo fosse possibile, allora sarebbe il tempo ad essere impossibile; infatti un passato che può essere rivisitato e cambiato, non è realmente passato. Per Gödel, il tempo, come Dio, o è necessario o non è nulla; un Dio che non sia intrinsecamente necessario, semplicemente non è.

La prova matematica dell’esistenza di Dio
Negli anni trascorsi a Princeton Gödel prosegue i suoi studi, sviluppa una sua teoria cosmologica, ma le sue idee non decollano. Il senso di colpa per la sua presunta scarsa produttività lo tormenta. Nel ‘58 pubblica quello che sarà il suo ultimo articolo; anni dopo scriverà una dimostrazione ontologica dell’esistenza di dio, non un dio religioso ma un dio logico, che però non pubblica per timore che sia fraintesa e strumentalizzata.

Forse nelle loro passeggiate il genio della fisica e il genio della logica parlavano anche di donne. In quell’ambito avevano affinità e differenze. Storie extraconiugali causarono il divorzio di Einstein dalla prima moglie Mileva Maric. La seconda, Elsa Einstein in Lowenthal, cugina di primo grado di Albert e a sua volta divorziata, quando diventò Elsa Einstein, non si curò dello sfarfallare del cugino-marito e per lui fu soprattutto una raffinata badante.

Gödel sposò Adele, una divorziata cattolica più anziana di lui che faceva la ballerina in un locale notturno di Vienna dall’insegna programmatica: “La falena”. La coppia rimase unita fino alla fine. Adele seppe essere più di una badante: fu un supporto sicuro contro le fragilità del compagno. Quando Adele morì, Kurt precipitò ancora più a fondo in episodi allucinatori e comportamenti maniacali. Peraltro il grande logico era così inflessibile da diventare illogico. Credeva nei fantasmi, temeva di essere avvelenato, durante il colloquio per ottenere la cittadinanza americana cercò di convincere il suo interlocutore che la Costituzione americana conteneva una contraddizione tale da rendere possibile la dittatura. Albert, più pragmatico, lo dissuase dall’insistere.

Le vite di Einstein e Gödel non furono parallele come quelle di cui scrisse Plutarco, ma simmetricamente opposte. Einstein visse nel 1905 il suo anno magico producendo in pochi mesi i lavori sull’effetto fotoelettrico (che gli darà il Nobel), sul moto browniano (che confermò l’esistenza degli atomi) e sulla relatività (che rifondò le leggi della fisica). La relatività fu generalizzata nel 1916 e comprovata con l’osservazione di un’eclissi di Sole nel 1919. Questi lavori diedero a Einstein una popolarità immensa. L’anno magico di Gödel fu il 1930, quando pubblicando il teorema di incompletezza rifondò la matematica, ma nonostante questo formidabile risultato Gödel rimase pressoché sconosciuto.

Tra i due spiccavano anche differenze di comportamento. Einstein aveva un aspetto trasandato, Gödel indossava giacca, cravatta, cappotto scuro e cappello Borsalino. Einstein amava la musica colta, Gödel le canzoncine del film “Biancaneve e i sette nani”. Einstein parlava con tutti, Gödel a stento con se stesso.

Però tra loro Einstein e Gödel parlavano. Di che cosa esattamente non sappiamo. Pare di politica, di fisica, di filosofia, del più e del meno. Di Gödel, oltre al genio, Einstein apprezzava l’irriverenza. Kurt era l’unico che avesse il coraggio di dargli torto, per questo motivo Albert considerava un privilegio conversare con lui.

L’aneddoto più bello su Kurt Gödel è di Albert Einstein che diceva di essere andato a Princeton «solo per avere il privilegio di camminare insieme a Gödel sulla via di casa».



Fonte:
https://www.lastampa.it/2019/04/23/scienza