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domenica 21 settembre 2025

Una rivoluzione sta arrivando: Possiamo curare l’invecchiamento e vivere indefinitamente?

 


Per millenni, l’umanità ha considerato l’invecchiamento come un destino inevitabile. Nasciamo, cresciamo, invecchiamo e, alla fine, moriamo. Ma se la scienza stesse iniziando a svelare un’altra possibilità? Se invecchiare non fosse una legge naturale immutabile, bensì un problema biologico da curare, proprio come una malattia?

C’è stato un tempo in cui volare sembrava impossibile, parlare a distanza una follia, curare malattie mortali un sogno irraggiungibile. Oggi lo diamo per scontato. Ma forse stiamo per assistere alla più grande rivoluzione di tutte: la fine dell’invecchiamento come destino inevitabile.

Immagina un futuro in cui la vecchiaia non è più una condanna, ma una condizione temporanea, curabile. Un futuro in cui possiamo ringiovanire noi stessi, tornando biologicamente giovani ogni volta che i segni del tempo iniziano a farsi sentire. Fantascienza? Non più.

L’invecchiamento: un “errore di manutenzione”
Questa è l’idea provocatoria, ma sempre più presa sul serio, portata avanti da ricercatori come Aubrey de Grey. Secondo lui, l’invecchiamento non è un misterioso processo naturale ma è il risultato di piccoli danni che si accumulano nelle nostre cellule e nei nostri tessuti: cellule che smettono di funzionare, proteine che si aggregano, DNA che subisce mutazioni. È come se il nostro corpo fosse una macchina straordinaria che, col tempo mostra segni di usura. Il nostro corpo rallenta perché nessuno fa la “manutenzione” necessaria. Senza manutenzione, si logora.

Ma cosa accadrebbe se questa manutenzione diventasse possibile?
La risposta è sconcertante: la vita potrebbe diventare indefinita.

Dalla fantascienza ai laboratori
Oggi esistono già ricerche promettenti che mirano a curare l’invecchiamento alla radice:
Senolitici – farmaci capaci di eliminare le cellule “zombie” che non funzionano più ma che continuano a occupare spazio e a danneggiare i tessuti.
Terapie geniche – per correggere mutazioni e riattivare programmi di ringiovanimento nelle cellule.
Ripristino epigenetico – esperimenti in laboratorio hanno già mostrato che si può “riavvolgere l’orologio biologico” di cellule e tessuti.
Staminali e rigenerazione – tessuti e organi potrebbero essere rinnovati o persino sostituiti, come pezzi di ricambio di una macchina complessa.

Il principio è chiaro: se riusciamo a riparare regolarmente i danni dell’invecchiamento, potremmo vivere molto più a lungo e in salute. Non si tratta solo di aggiungere anni alla vita, ma soprattutto di aggiungere vita agli anni.

La prospettiva dell’estensione indefinita della vita
Immagina un mondo in cui a 90 anni ti iscrivi a una nuova facoltà, a 120 inizi una nuova carriera, a 150 anni ti innamori di nuovo come fosse la prima volta. Non più vite brevi scandite da fasi rigide, ma un’esistenza aperta, fluida, illimitata.

Sarà un futuro in cui, ogni dieci o vent’anni, ci sottoponiamo a terapie di ringiovanimento. Un check-up radicale in grado di riportarci biologicamente a uno stato giovanile. In quel caso, la vecchiaia non sarebbe più una fase inevitabile, ma una condizione temporanea e curabile.
Significherebbe poter vivere 120, 150, 200 anni… forse senza un vero limite. Non “immortalità” nel senso assoluto, perché resterebbero comunque incidenti, malattie impreviste o catastrofi naturali, ma una longevità indefinita: la possibilità di vivere quanto vogliamo, finché scegliamo di farlo.

La rivoluzione che cambierà tutto. Se riusciremo a curare l’invecchiamento, le malattie legate all’età – Alzheimer, Parkinson, tumori, insufficienza cardiaca – potrebbero diventare ricordi di un’era passata. La medicina non si limiterebbe più a curare, ma a ringiovanire.

Tecnologie che riscrivono la biologia

Già oggi, nei laboratori, stiamo assistendo a esperimenti che sembrano magia:
Ogni passo sembra un assaggio di un futuro in cui l’età anagrafica non avrà più importanza.
Si vivrà un nuovo rapporto con il tempo. La longevità indefinita non significherebbe soltanto vivere più a lungo, ma vivere meglio, con la libertà di reinventarsi continuamente.

Opportunità e domande aperte

Se questo scenario si avverasse, la nostra civiltà sarebbe trasformata radicalmente. Avremmo più tempo per studiare, amare, viaggiare, reinventarci. Ma sorgerebbero anche enormi domande: chi avrebbe accesso a queste terapie? Come cambierebbe la società, il lavoro, la famiglia?
La promessa di una vita potenzialmente senza fine non è solo una sfida scientifica, ma anche filosofica ed etica.

Allora, vivremo per sempre?
Per ora, la risposta è: non ancora. I progressi ci sono, ma siamo solo all’inizio. Tuttavia, mai come oggi la ricerca ha reso credibile l’idea che un giorno potremmo curare l’invecchiamento e persino ringiovanire.

Forse la domanda non è più “se” ci riusciremo, ma “quando”.

Ogni epoca ha avuto i suoi visionari bollati come sognatori, fino a quando i loro sogni non sono diventati realtà. Oggi, per la prima volta nella storia, la scienza ci mette davanti all’ipotesi più radicale di tutte: un futuro in cui potremmo scegliere quanto vivere.

Forse i nostri nipoti guarderanno a noi con stupore, chiedendosi: “Com’è possibile che accettavate di invecchiare?”

La longevità infinita potrebbe non essere più una fantasia, ma il prossimo capitolo dell’avventura umana.

La cellula invecchia perché non riceve informazioni dalla nostra mente cosciente! -Capitolo VI

Lo scopo della vita è la vita stessa - Capitolo 10

giovedì 21 luglio 2011

Gli Intelligenti vivono di più!



La longevità non è solo una questione di salute fisica ma anche, e soprattutto, mentale.

La notizia arriva dalla parte dei ricercatori Ian Deary e Goff Der, scienziati scozzesi.  Un articolo sulla rivista Psychological Science dimostra che maggiore è il grado d’intelligenza, più alta sarà l'aspettativa di vita.

Gli scienziati, da tempo, hanno ipotizzato un legame tra intelligenza e longevità. Già nel lontano 1932, le autorità scolastiche scozzesi intrapresero una ricerca, nel corso della quale misurarono il quoziente intellettivo dei ragazzi nati nel 1921 nella cittadina di Aberdeen, in Scozia. Furono estrapolati i dati e non ne seguì nulla sino al 1997 quando Lawrence Whalley, docente di igiene mentale all’Università di Aberdeen, e Ian Deary, professore di psicologia differenziale all’Università di Edimburgo, decisero di dare seguito alla ricerca.

Le indagini di Deary e Der, in 900 persone, durate quattordici anni, per misurare l’intelligenza e la prontezza dei riflessi - perché l'intelligenza è associata con la capacità di reagire rapidamente agli stimoli - hanno dimostrato che la maggior parte di coloro che sono morti per cause naturali, di quel gruppo di osservazione, non faceva parte del gruppo che ha totalizzato il punteggio più alto del livello d’intelligenza e reazioni rapide. 

Le possibili spiegazioni per il fatto di che le persone intelligenti vivono più a lungo, secondo Deary, sono tre: la più semplice, è perché le persone intelligenti sono più informate, quindi, curano meglio la salute. La seconda è legato al fatto che le persone più intelligenti, nella maggior parte dei casi, possono trovare un lavoro migliore pagato e questo determina una condizione generale di vita migliore, la terza è quella che ha prodotto un maggiore interesse, perché, per la prima volta, l'intelligenza e la velocità (nel prendere decisioni) sono poste in stretta relazione con la capacità di preservare la propria salute, e allungamento della vita.

Una ridotta prontezza mentale sarebbe il primo segno del decadimento dell’organismo. In conformità a questo fenomeno  Deary spiega - può essere che ci sia una degenerazione del sistema nervoso: in pratica, quando si allunga il tempo delle reazioni, sarebbe come se il corpo stesse inviando il primo segno d’invecchiamento, e questo non interessa soltanto alla mente ma a tutte le funzioni del corpo.

Ciò che caratterizzò lo studio dei due scozzesi fu l’interesse per l’intelligenza umana in relazione alla durata della vita. Fu così che rispolverarono le quasi 2800 valutazioni effettuate 65 anni prima agli studenti di Aberdeen, accertarono chi di loro era ancora in vita e scoprirono che la sopravvivenza era nettamente superiore tra coloro che ai tempi (nel ’32) avevano registrato un quoziente intellettivo elevato, rispetto ai meno dotati. Prese forma, così la teoria che l’intelligenza vivace potesse costituire un fattore determinante della longevità.